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«È arrivato Volódâ!» gridò qualcuno fuori. «È arrivato il padroncino Volódâ!» strillò Natàl¿â, correndo in sala da pranzo. «Ah, Dio mio!». Tutta la famiglia Korolëv, che aspettava l¿arrivo del suo Volódâ da un momento all¿altro, si precipitò alle finestre. All¿ingresso c¿era un grande rozval¿ni1 e un vapore denso saliva dalla trojka di cavalli bianchi. La slitta era vuota, perché Volódâ era già nell¿ingresso e si stava slacciando il cappuccio con le dita arrossate, congelate. Il cappotto dell¿uniforme del ginnasio, il berretto, le galosce e i capelli sulle tempie erano coperti di brina ed emanava dalla testa ai piedi un odore di gelo così buono che, guardandolo, veniva voglia di rabbrividire e dire: «Brrr!». La madre e la zia si precipitarono ad abbracciarlo e baciarlo, Natàl¿â gli si accasciò ai piedi e cominciò a sfilargli i vàlenki2, le sorelle si misero a strillare, le porte cigolavano, sbattevano, e il padre di Volódâ, col solo gilè addosso e le forbici in mano, si precipitò nell¿anticamera e gridò spaventato: «È da ieri che ti stiamo aspettando! Hai fatto buon viaggio? Tutto bene? Signore, mio Dio, lasciate che saluti suo padre! Cos¿è, non sono suo padre?»
«Un ozio perfetto, questi baci in mezzo al bianco del giorno, con circospezione e paura d¿essere visti, il caldo, l¿odore del mare e il continuo balenare davanti agli occhi di persone oziose, eleganti, sazie lo avevano come rigenerato». In certi passi la voracità e la golosità ¿ l'oralità ¿ vengono apertamente contrapposte ai sentimenti, come qui, dove al dramma dell'amore impossibile si sovrappone il dramma della sua incomunicabilità, perché Gurov si ritrova circondato da persone che vivono l'intera loro vita ruotando intorno al cibo: «E ormai era afflitto dal forte desiderio di condividere con qualcuno i suoi ricordi. Ma a casa non poteva parlare del suo amore, e fuori casa non c¿era nessuno. Non con i vicini e nemmeno in banca. E di che cosa parlare? Quindi la amava veramente? [...] "Se lei potesse sapere quanto era affascinante la donna che ho conosciuto a Âlta!". Il funzionario salì sulla slitta e partì, ma improvvisamente si voltò e chiamò: "Dmitrij Dmitri¿!" "Che cosa?" "Aveva ragione prima: lo storione aveva un odorino così così!" [...] Che costumi selvaggi, che gente! Che serate senza senso, che giornate poco interessanti, insignificanti! La smania del giocare.
Quando si traduce si fanno necessariamente delle scelte, perché non si può tradurre tutto in modo ottimale. Nel caso specifico, quando il testo della traduzione è destinato alla recitazione, tutte le battute devono avere come dominante la recitabilità, la pronunciabilità, la plausibilità della frase. Sono considerazioni che fa in primo luogo l¿autore, e che il traduttore deve fare proprie. Fermo restando che un testo del 1896 non ha di solito lo stesso registro e lo stesso lessico di un testo del 2022, le frasi devono suonare verosimili in bocca a chi le pronuncia. Questa è stata la nostra preoccupazione principale traducendo il capolavoro di ¿echov. L¿altra dominante è stata il rigore filologico. Quando si traduce un gigante, non solo letterario ma anche filosofico e umano, bisogna mettere da parte ¿ se necessario: con ¿echov a noi è successo molto di rado ¿ il proprio gusto personale e lasciar emergere quanto possibile la poetica dell¿originale. La tragedia (non si capisce perché l¿autore la definisca «commedia») ruota intorno alla figura di una donna affetta da disturbo istrionico della personalità, Arkàdina.
In questa novella-capolavoro del 1891, ¿echov si concentra in modo particolare su un tema che tra le righe aveva già caratterizzato alcune altre opere: quello della (scarsa) differenza tra animale non umano e animale umano. Per farlo, ha scelto come protagonista lo zoologo Von Koren, che può essere considerato un Antón Pàvlovi¿ ¿echov estremamente darwiniano. L¿urgenza del raffronto emerge da frasi come questa, in cui si accostano ¿versi¿ degli uni e degli altri: Laévskij indossò cappotto e berretto, mise in tasca le sigarette e si fermò perplesso; gli sembrava di dover fare qualcos¿altro. Nella via conversavano piano i padrini e stronfiavano i cavalli, e questi suoni nel primo mattino umido, quando tutti dormono e il cielo riluce appena, riempirono l¿animo di Laévskij di una disperazione simile a un brutto presentimento.
Postfazione Ho pensato di tradurre Il giardino dei ciliegi quando mi sono accorto che gli alberi in questione non sono ciliegi, ma amareni. Il dramma ruota intorno all'impoverimento della famiglia dovuto proprio al fatto che le amarene non sono trasportabili (e quindi commerciabili) a meno di sottoporle prima a procedimenti di conservazione (marinatura). Sono proprio i procedimenti che non sono più noti, e che causano la decadenza, con tutto ciò che ne deriva. Manca il tramandarsi di generazione in generazione dei "metodi di famiglia", delle "tradizioni" che hanno fatto di questo, il più grande amareneto della regione, una fonte di ricchezza. Quanto al "giardino", la parola russa sad si usa in locuzioni come fruktovyj sad, "giardino della frutta", ma che noi chiamiamo «frutteto», zoologi¿eskij sad, "giardino degli animali", ma che noi chiamiamo «zoo», botani¿eskij sad, "giardino botanico", ma che noi chiamiamo «orto botanico» e così via. Quindi risulta evidente che la resa «giardino dei ciliegi» è rozza e frettolosa (il che ovviamente non giustifica che non sia stata corretta nei centodieci anni successivi).
Come spesso succede in Cechov, questa novella esprime di continuo una visione sull'uomo dall'esterno, dal punto di vista delle altre specie. Qui, in particolare, compaiono molti uccelli, in varie forme. È stato spesso pubblicato in raccolte di racconti, intitolate per esempio "Titolo... e altri racconti". È proprio un torto, una violenza assemblare per motivi commerciali opere tanto diverse, tanto discrete. "Kak vsë èto póslo", forse direbbe Antón Pàvlovic se fosse qui a vederlo ¿ "Come tutto questo è volgare".
"Cattiva condotta Una cagna giovane rossiccia ¿ incrocio tra un bassotto e un bastardino ¿ dal muso molto simile a una volpe, correva avanti e indietro sul marciapiede e guardava inquieta da una parte all¿altra. Ogni tanto si fermava e, piangendo, sollevando ora una zampa gelata, ora l¿altra, cercava di tirare le fila: come aveva fatto a perdersi? Si ricordava benissimo come aveva passato la giornata e come infine era capitata su questo marciapiede che non aveva mai visto. La giornata era cominciata che il suo padrone, il falegname Lukà Aleksàndry¿, indossava il berretto, metteva sotto braccio un affare di legno avvolto in un panno rosso, e gridava..."
¿Il 5 luglio 1890 sono arrivato in piroscafo alla città di Nikolàevsk, una delle estremità orientali della nostra patria. L¿Amùr qui è molto largo, al mare restavano soltanto 27 verste1; il posto è maestoso e bello, ma i ricordi del passato di questa regione, quello che i compagni di viaggio dicono sul duro inverno e sulle non meno dure usanze locali, la vicinanza dei lavori forzati e l¿aspetto stesso della città abbandonata, spopolata fanno passare del tutto la voglia di ammirare il paesaggio. Nikolàevsk è stata fondata non poi da tanto, nel 1850, dal famoso Gennàdij Nevel¿skój, momento radioso più unico che raro della storia della città. Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando si è cominciato lo sfruttamento agricolo del territorio lungo l¿Amùr facendo generoso uso di soldati, detenuti e coloni, a Nikolàevsk facevano soggiorno i funzionari che governavano la regione, qui arrivavano numerosi avventurieri russi e stranieri, si trasferivano i coloni attirati dalla straordinaria abbondanza di pesce e di selvaggina e, evidentemente, gli interessi che si confanno al genere umano non erano estranei alla città, tant¿è vero che uno scienziato di passaggio considerò
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